Il passaggio dal segnale analogico al digitale terrestre, iniziato nel 2008, ha rivoluzionato il modo di vedere la televisione e ridefinito le regole di chi la televisione la fa. In Sicilia, dove il digitale terrestre è subentrato solo dal 2012, le emittenti locali lamentano condizioni insostenibili di concorrenza e denunciano: «In questi anni tutto è stato fatto appositamente per metterci piano piano fuori dall’etere». A dare voce alle rivendicazioni delle televisioni siciliane è la Rea Tv Sicilia (RadioTelevisioni Europee Associate), il cui coordinatore, Francesco Di Fazio (amministratore delegato del circuito televisivo D-Network), dichiara: «Il 30 aprile rischiano di chiudere 160 emittenti locali in tutta Italia, circa 20 nella sola Sicilia. La dismissione di alcune frequenze imporrà alle emittenti il pagamento di canoni e costi tecnici di trasmissione elevatissimi oltre a privarle dell’autonomia di operatori di rete. E’ più conveniente chiudere».
I particolari della questione sono spiegati in un videomessaggio che la Rea Tv Sicilia ha recentemente pubblicato su Facebook. «Le televisioni locali garantiscono un reale pluralismo dell’informazione. Questo importante ruolo è però stato più volte messo in discussione da leggi e regolamenti governativi che ne hanno complicato l’operatività. La Rea Tv Sicilia si pone come obiettivo la risoluzione di alcune problematiche oramai non più rinviabili quali le dismissioni delle frequenze, programmate al 30 aprile, la questione dell’assegnazione dei canali sul telecomando, il riassetto del piano frequenze, i nuovi regolamenti sui provvedimenti editoria e sui contributi che la legge 448 del 98 riconosce alle emittenti locali e, non ultimo per importanza, i canoni mostruosi prospettati da Agcom (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) e Mise (Ministero dello sviluppo economico) i quali – sottolinea il comunicato della Rea Tv Sicilia – puntano a farci chiudere».
Il ruolo di Agcom e Mise è centrale nelle recriminazioni della Rea Tv Sicilia: «Per legge, un terzo delle frequenze coordinate (meno soggette ad interferenze, ndr) assegnate all’Italia doveva essere destinato alle televisioni locali. L’Agcom ed il Ministero hanno più volte violato queste leggi a favore dei grandi network nazionali, ai quali sono state rilasciate quasi tutte le frequenze coordinate e le numerazioni del telecomando anche in violazione dell’Antitrust (norme giuridiche poste a tutela della concorrenza sui mercati, nda)». L’effetto denunciato è che «Le Tv locali sono state emarginate agli ultimi posti del telecomando ed hanno avuto solo frequenze incompatibili con gli stati esteri. Le stesse per le quali ora, da Agcom e Ministero, è stata richiesta la disattivazione al 30 aprile 2015».
Un provvedimento che «andrà a solo danno delle TV locali, che hanno già sostenuto notevoli esborsi economici per il passaggio al digitale terrestre». Questo è ciò che avviene in Italia. In Sicilia, la situazione denunciata è persino peggiore «La regione Sicilia si è dimostrata inutile, unica in Italia per incapacità politica e amministrativa sulla programmazione dei fondi. Nonostante fosse previsto dalle norme europee, in tutta Italia rimaste inapplicate dalla sola Regione Siciliana, le TV siciliane non hanno beneficiato di alcun contributo». La scadenza del 30 aprile, ormai imminente, ha portato la Rea Sicilia a formulare un appello «rivolto non alla classe politica, dimostratasi al servizio delle lobbies, ma a sensibilizzare l’opinione pubblica ed a ritrovare l’unione tra le varie emittenti locali».
«Difendere le nostre aziende è un nostro dovere – scrive la Rea Sicilia – dobbiamo mettere da parte ogni controversia, se mai esistita nel passato tra alcuni di noi, focalizzando che tali controversie sono nate proprio grazie a quei bandi o regolamenti fatti appositamente per farci fare guerra tra noi, evitando cosi ad altri il disturbo di preoccuparsi come farci fuori dal sistema». Il pericolo, conclude il comunicato della Rea Tv Sicilia, è che «Se non verranno trovate soluzioni idonee per garantire l’operatività delle emittenti locali, molto presto gli utenti saranno privati di un vero servizio pubblico di informazione e migliaia di posti di lavoro, circa 2000, andranno perduti».