Giarratana: “La città ha perso ogni riferimento, in attesa di morire”

CALTANISSETTA – La cruda rappresentazione oggettiva dei fatti che costituiva il verismo non è morta e sepolta, vive ancora in Sicilia. Esistono ancora i vicerè, i malavoglia (almeno nel senso letterale del termine), sopravvivono abitudini, ipocrisie e usi e costumi di quel tempo.

Federico De Roberto, se fosse ancora in vita, rimarrebbe sconvolto nel constatare come ancora gli Uzeda di Francalanza nella peggiore e deteriore trasposizione siano ancora in vita.

Basta osservare con occhio distaccato ma curioso quello che succede in questi giorni a Caltanissetta per rivedere scene che pensavamo potessero essere soltanto viste e lette sui libri.

Un vicerè due anni addietro per rimanere sulla ribalta e per mero calcolo promise in sposo un suo rampollo, da lui neanche tanto stimato, ai “viddrani arrinnisciuti”. Come era sua abitudine continuò a tradire la nobiltà che lo aveva prima attorniato ed esaltato prima che questi si accorgessero della sua falsità, della sua perfidia e della sua cinica smania di protagonismo. Solo lui, gli altri sudditi.

Alla festa di addio al celibato portò una dote in termini di voti non esagerata ma di grande valore e significato. Mangiarono, anzi si ingozzarono, si ubriacarono. C’erano tutti: il lungo, il grosso, il pacioccone e ovviamente anche lui, con il suo solito sorriso diabolico e falso, di quelli che ogni mattina vanno a messa, consapevoli di espiare colpe e peccati indicibili, sperando, per facciata e per reale esigenza, di farla franca dinanzi all’Altissimo.

I “viddrani arrinnisciuti” non credevano ai loro occhi che un novello Uzeda desse loro un supporto per alzare il loro lignaggio, invero troppo misero. E alla festa parteciparono tanti questuanti, tanti popolani, convinti che quel matrimonio potesse far risorgere una città allo stremo. Si ubriacarono pure loro, dimenticandosi e rinnegando coloro che facevano vanto della loro storia fatta di fatica, studio, sudore, serietà e amore reale nei confronti della loro terra.

Ma all’indomani dell’addio al celibato, smaltita la sbornia, i “viddrani arrinnisciuti” misero alla porta senza tanti complimenti lo spocchioso vicerè e i suoi sodali che non poterono avere indietro, ovviamente, dote e roba, usate e ormai incassate.

Il rancore restò in corpo, la rabbia nella mente, forse anche il senso di colpa, ma di quello probabilmente c’è traccia soltanto in qualche bravo ragazzo soggiogato e anche usato dall’Uzeda di casa nostra.

All’ennesimo oltraggio pubblico dei “viddrani arrinnisciuti” perfino in un periodo di pandemia, la città insorse e forte del malcontento generale il vicerè, si convinse, come un qualsiasi ragazzino tradito, a chiedere indietro l’anello di fidanzamento.

Cosa resta di questo racconto? Come nel verismo derobertiano un’esperienza traumatica della modernità. Viviamo in molti ormai un disincanto nostalgico, una rabbia repressa con la ragione con lo sfondo di un città che ha perso ogni riferimento e vive in attesa di morire.

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