Cosa ne pensa la giurisprudenza dei protocolli di legalità?

da: WWW.DIRITTO.IT
1. I PROTOCOLLI DI LEGALITA’
Negli ultimi anni si registra una grande diffusione dei protocolli di legalità, con cui “le amministrazioni assumono, di regola, l’obbligo di inserire nei bandi di gara, quale condizione per la partecipazione, l’accettazione preventiva, da parte degli operatori economici, di determinate clausole” introdotte “ per la prevenzione, il controllo ed il contrasto dei tentativi di infiltrazione mafiosa, nonché per la verifica della sicurezza e della regolarità dei luoghi di lavoro” .
Molto frequentemente con detti strumenti convenzionali si estendono talune misure di controllo previste dalla legislazione antimafia al di fuori dei casi strettamente previsti dalla legge.
Una fattispecie molto ricorrente è quella degli accordi volti a rendere obbligatoria la richiesta dell’informazione antimafia al di sotto delle soglie di valore previste, attualmente, dall’art. 91, c. 1, del Codice delle leggi antimafia (talvolta anche di quella minima per la documentazione antimafia ex art. 83 del Codice) e, in passato, dall’art. 10 d.P.R. 252/1998.
Ancora, si è previsto talvolta che il subappalto possa essere acquisito solo da imprese appartenenti a determinate categorie. Le parti dei protocolli sono “i soggetti coinvolti nella gestione dell’opera pubblica (normalmente la prefettura Utg, il contraente generale, la stazione appaltante e gli operatori della filiera dell’opera pubblica)”.
Tali protocolli, fino alle recenti novità normative, potevano trovare fondamento innanzitutto in disposizioni di legge, come l’art. 176, comma 3, lett. e) del Codice degli appalti, che prevede la necessaria stipulazione di appositi accordi da parte dei soggetti aggiudicatori di infrastrutture strategiche, con gli organi competenti in materia di sicurezza, prevenzione e repressione della criminalità, finalizzati alla verifica preventiva del programma di esecuzione dei lavori in vista del successivo monitoraggio di tutte le fasi di esecuzione delle opere e dei soggetti che le realizzano; i contenuti di tali accordi sono definiti dal CIPE sulla base delle linee guida indicate dal Comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza delle grandi opere, istituito ai sensi dell’art. 180 del Codice e del decreto del Ministro dell’interno 14 marzo 2003. Le prescrizioni del CIPE trasposte negli accordi sono vincolanti per i soggetti aggiudicatori e per l’impresa aggiudicataria, che è tenuta a trasferire i relativi obblighi a carico delle imprese interessate a qualunque titolo alla realizzazione dei lavori.
Oltre alle forme pattizie vincolanti ex lege e addirittura predefinite nel contenuto, appena citate, vengono frequentemente stipulati accordi che prevedono l’inserimento di analoghe clausole nel bando di gara al di fuori di un’esplicita copertura di legge e che saranno oggetto delle successive considerazioni. Le valutazioni della giurisprudenza amministrativa su quest’ultima categoria di accordi, che potremmo definire atipici, non sono state uniformi.
Infatti, secondo un primo orientamento le previsioni estensive degli accordi in argomento trovano “adeguata copertura” nell’art. 15 l. 241/1990, che ne costituisce la diretta “fonte legittimante” . Secondo altro autorevole indirizzo i protocolli di legalità sono “atti politici di indirizzo non vincolanti le Amministrazioni nell’esercizio della loro attività amministrativa”; ne è derivato il giudizio di illegittimità delle clausole del bando impugnato che prevedevano fosse obbligatorio preferire nell’aggiudicazione le imprese che avevano dichiarato il loro impegno a subappaltare ad imprese confiscate in base alla legislazione antimafia (4). Ciò è stato ritenuto contrastante con i principi della parità, della concorrenza e della libertà di impresa.
Anche la giurisprudenza favorevole ai protocolli di legalità ha tuttavia fissato dei limiti a tale forma pattizia, in quanto la “revoca della concessione e la risoluzione del contratto, automaticamente ed immediatamente disposte, possono conseguire solo alla presenza di cause interdittive di cui agli artt. 10 l. n. 575/1965, 4 d lgs. N. 490/1994 e 10 d.P.R. n. 252/1998, ma non anche, nello stesso modo immediato ed automatico, alla mera rilevazione di elementi che, non assurgendo ex se a fondamento di informazioni antimafia con effetto interdittivo, abbisognano di valutazione da parte dell’amministrazione e quindi di motivazione in ordine alla rilevanza” .
La mancanza di copertura legislativa dei protocolli di legalità è stata superata, pur con le ampie riserve di seguito riportate, grazie all’art. 1, c. 17, l. 6 novembre 2012, n. 190, recante disposizioni per
la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione, in forza del quale “Le stazioni appaltanti possono prevedere negli avvisi, bandi di gara o lettere di invito che il mancato rispetto delle clausole contenute nei protocolli di legalità o nei patti di integrità costituisce causa di esclusione dalla gara”.
2. GLI ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI SUCCESSIVI ALL’ENTRATA IN VIGORE DELLA LEGGE ANTICORRUZIONE.
Anche successivamente all’emanazione della citata norma della legge anticorruzione, la giurisprudenza non sembra uniformemente orientata rispetto all’istituto in esame.
Si registra a tal proposito una recente pronuncia cautelare, in una fattispecie di mancata produzione alla stazione appaltante da parte dell’impresa aggiudicataria dell’accettazione del protocollo di legalità prevista da una clausola del bando, secondo cui quest’ultima non viola l’art. 46, c. 1 bis, d. lgs. 163/2006, in quanto va considerata legittima in forza dell’art. 1, c. 17, della l. 190/2012, il cui disposto va interpretato “come possibilità di pretendere l’accettazione di tali protocolli, con apposita
dichiarazione da allegare agli atti di gara, a pena di esclusione” (6).
Altra giurisprudenza, invece, ha assunto sul tema una posizione più problematica, statuendo tra l’altro che è “illegittima l’informativa antimafia rilasciata per contratti aventi valore inferiore alla soglia di cui all’art. 1, comma 2, lett. e) del D.P.R. 252/1998 (art. 83 del Codice Antimafia, approvato con D. lgs. 159/2011)..”, consistente in 300 milioni di lire (euro 154.937,07 ora arrotondati a euro 150.000), superata la quale è necessaria la documentazione antimafia; parimenti illegittimi sono gli “atti di tipo organizzativo o convenzionale che tale informativa comunque prevedano (come i protocolli di
legalità)” (7).
La pronuncia, anche se attinente ad atti emanati in data antecedente all’entrata in vigore dell’art. 1, c.17, l. 190/2012, riveste estremo interesse per le sue motivazioni, che delineano innanzitutto il significato dell’informazione antimafia interdittiva, il cui effetto tipico “è non già l’accertamento della “criminalità” dell’imprenditore o della sua vicinanza collaborativa con organizzazioni criminali, bensì l’individuazione del solo “rischio” che l’impresa non sia libera di determinarsi: per questo motivo, la soglia di valore che segna il limite delle fattispecie non è disponibile, perché costituisce un preciso punto di equilibrio del bilanciamento di opposti interessi, individuato dal legislatore. Tale limite è posto, infatti, per contemperare in maniera ragionevole e proporzionata l’esigenza di assicurare le ragioni di interesse pubblico alla prevenzione (ossia a che non interloquiscano con la PA e non usufruiscano così di rimesse pubbliche operatori commerciali che, pur incensurati, possono comunque essere direttamente o indirettamente controllati dalla criminalità organizzata) con l’altrettanto qualificata esigenza di consentire libertà di impresa e speditezza degli affari ad operatori che comunque non sono colpiti da condanne o soggetti a conseguenti interdizioni sanzionatorie di natura penale, ed, al contempo, la celere effettuazione da parte della PA di spese, ordinativi e contratti d’uso comune e di minore complessità…”.
Effettivamente, l’istituto dell’informazione antimafia è improntato ad un notevole avanzamento della soglia di prevenzione, in forza del quale la garanzia della libertà di impresa, contemplata a livello costituzionale, recede in modo rilevante rispetto alla tutela dell’ordine pubblico e della legalità in genere; si rammenta, a tal proposito, che l’informazione antimafia, oltre ad attestare la sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, sospensione o divieto di cui all’art. 67 del Codice delle leggi antimafia, evidenzia anche l’esito delle verifiche in tema di infiltrazione mafiosa nell’impresa, che può pure essere desunta da indici diversi da un addebito penale accertato definitivamente a carico dei soggetti di cui all’art. 85 del richiamato Codice.
Ma la citata decisione del T.A.R. Calabria rileva anche per il richiamo ad un profilo spesso negletto,
quello dell’efficienza organizzativa delle strutture cui è devoluta la tutela la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica.
Infatti, sempre secondo i Giudici reggini, “L’indebita estensione degli accertamenti preventivi di tipo
interdittivo al di sotto della soglia di valore del contratto…comporta altresì per l’Amministrazione pubblica chiamata a contrastare la criminalità organizzata un dispendio di energie e di risorse umane che incide negativamente sulla qualità ed efficacia della stessa azione preventiva, impedendo, da un lato, di concentrare la prevenzione sulle fattispecie contrattuali di maggiore rilevanza economica (come viceversa richiede il Legislatore) e concorrendo, dall’altro, ad abbassare gli standard qualitativi delle stesse informazioni rese dalle Forze dell’Ordine, coinvolte in un controllo generalizzato di tipo amministrativo, che diventa sostanzialmente inutile, perché qualitativamente poco accurato, in dipendenza del numero degli affari da trattare”.
3. PROBLEMATICHE INTERPRETATIVE SUI PROTOCOLLI DI LEGALITA’.
E’ lecito chiedersi se, a seguito dell’intervento normativo di cui all’art. 1, c. 17, l. 190/2012, tutte le problematiche evidenziate dalla richiamata pronuncia del T.A.R. Calabria possano considerarsi superate.
In realtà non sembra che la risposta al quesito sia positiva.
E’ innanzitutto evidente che l’art. 1, c. 17, l. 190/2012 prevede l’obbligatorietà non del protocollo di
legalità, ma solo delle relative clausole il cui mancato rispetto, secondo la lex specialis della gara di appalto, costituisce causa di esclusione dalla gara.
I protocolli di legalità, come rilevato da un orientamento giurisprudenziale, potranno invece trovare
copertura legislativa nell’art. 15 l. 241/1990 ed essere inquadrati nella generale figura degli accordi tra pubbliche amministrazioni, mutuando tuttavia le incertezze sull’efficacia di questi ultimi; da sempre, infatti, gli interpreti si dividono tra coloro che ritengono applicabili a tale categoria le regole del codice civile, anche in materia di inadempimento contrattuale ed esecuzione in forma specifica, ovvero una disciplina prettamente pubblicistica, con la conseguente possibilità di esercizio di forme di
autotutela da parte delle P.A (8).
Si osserva, inoltre, che viene concessa alle stazioni appaltanti la facoltà di sanzionare con l’esclusione dalla gara il mancato rispetto delle clausole contenute nei protocolli di legalità o nei patti di integrità.
Infatti, l’uso del termine “possono” richiama in modo palese il concetto di discrezionalità della
stazione appaltante, cui spetta la decisione se sanzionare o meno con l’esclusione dalla gara il mancato rispetto della clausola del protocollo di legalità.
Tale assunto è conforme alla citata giurisprudenza del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana che attribuiva valore politico al protocollo di legalità e valore giuridico ai soli atti della P.A. che gestisce l’appalto.
Ma l’attività amministrativa discrezionale presenta dei limiti, anche se fissati in modo elastico, e non preciso e puntuale come in quella vincolata, lasciando alla P.A. un margine di valutazione. Il problema è che la norma in esame non presenta sufficienti elementi per delimitare il potere della P.A., a partire dal tipo di clausole che possono prevedere sanzioni da parte della stazione appaltante. Si richiamano, a tal proposito, le pronunce giurisprudenziali che ritenevano illegittime le clausole del protocollo di legalità che consentivano la risoluzione automatica non solo nei casi in cui l’informazione antimafia avesse effetto interdittivo, ma anche in quelli in cui fornisse solo degli elementi necessitanti di autonoma valutazione da parte della stazione appaltante.
La previsione di questo tipo di clausole anche attualmente non dovrebbe essere consentita, ma
purtroppo non è possibile desumere adeguati spunti ermeneutici in tal senso dalla norma de quo, che sembra pertanto lasciare spazi eccessivi alla discrezionalità della P.A.. Con particolare riferimento alla richiesta allargata delle informazioni antimafia, prevista in sede di protocollo di legalità, restano altresì invariate tutte le perplessità sollevate dal T.A.R. Calabria in merito all’alterazione dell’equilibrio fissato nel Codice antimafia, mediante la fissazione di apposite soglie, tra garanzia della libertà di impresa e della snellezza della procedura di appalto, da un lato, ed esigenze di prevenzione e repressione della criminalità, dall’altro; così come non si possono sottacere le rilevanti conseguenze dell’estensione dei controlli antimafia ad una platea più ampia di imprese sia sul reale livello di efficienza degli stessi sia sull’organizzazione delle Forze dell’ordine, le cui risorse andrebbero allocate in questo momento con la massima attenzione e tenendo conto di tutte le esigenze di sicurezza provenienti dalla società. Non sono, inoltre, venute meno le riserve a suo tempo avanzate in giurisprudenza sulla lesione del principio della libera concorrenza, innanzitutto per quelle clausole che prevedevano il ricorso obbligatorio per il subappalto a elenchi di imprese dotate di particolari requisiti, come quella di essere state confiscate per motivi di mafia.
Ma è la stessa natura del protocollo di legalità, istituto essenzialmente derogatorio del disposto della normativa generale in tema di antimafia, a essere in qualche modo difficilmente conciliabile con un
contesto comunitario che tende ad un’armonizzazione tra le varie legislazioni dei Paesi membri e che pertanto mal dovrebbe tollerare, per il rispetto dei principi di concorrenza e di trasparenza, procedure
di evidenza pubblica improntate a criteri diversi nelle diverse parti del territorio nazionale e addirittura all’interno della stessa provincia.
3.1 L’INCERTEZZA SULL’EFFETTIVA PORTATA DELL’ ART. 1, C. 17, DELLA LEGGE ANTICORRUZIONE.
Un’attenzione particolare meritano i profili di incertezza ermeneutica generati dall’art. 1, c. 17, l. 190/2012, laddove dispone che il mancato rispetto delle clausole contenute nei protocolli di legalità costituisce causa di esclusione dalla gara, se così è previsto nella lex specialis di gara.
Infatti, un orientamento giurisprudenziale già richiamato interpreta il testo della norma “come possibilità di pretendere espressamente l’accettazione di tali protocolli, con apposita dichiarazione da allegare agli atti di gara” .
Si desume dall’autorevole avviso citato che la finalità di quanto disposto nella legge anticorruzione, nella materia de qua, sarebbe quella di rendere obbligatorio tutto il contenuto del protocollo di legalità, comprese le sanzioni previste ivi previste, una volta che l’impresa accetti formalmente le clausole del protocollo; ove ciò non avvenisse si determinerebbe una legittima causa di esclusione dalla gara, ai sensi dell’art. 46 del Codice degli appalti. Tale interpretazione contrasta, tuttavia, con il testo della norma, che prevede come unica sanzione per la violazione delle clausole contenute nei protocolli di legalità l’esclusione dalla gara.
Infatti le clausole inserite nei protocolli di legalità, con obblighi a carico delle imprese, riguardano di regola comportamenti contemplati dagli stessi protocolli ma realizzabili o meno solo successivamente alla stipula del contratto e, quindi, nella fase di esecuzione di quest’ultimo; le relative infrazioni, come ad esempio la mancata utilizzazione per il subappalto delle ditte indicate nel contratto di appalto, non potrebbero infatti essere più punite nella fase esecutiva con l’esclusione dalla gara ma solo in altri modi, tra cui la risoluzione contrattuale. Tra le rare clausole riguardanti possibili violazioni da parte dell’impresa partecipante nella fase della gara di appalto, punibili con l’esclusione dalla stessa, si annoverano quelle attinenti la mancata dichiarazione di situazioni di controllo o di collegamento dell’impresa stessa con altri concorrenti, ovvero di accordo tra le medesime.
In questa prospettiva, peraltro conforme alla lettera della norma, verrebbe meno l’effettività di molte clausole dei protocolli di legalità, per mancanza di sanzione in caso di violazione.
Con ogni probabilità la legge avrebbe dovuto prevedere come violazione punibile con l’esclusione
dalla gara non il mancato rispetto delle clausole contenute nei protocolli di legalità e riportate nella lex specialis, di regola possibile solo dopo la stipula del contratto, ma la mancata accettazione da parte delle imprese delle stesse clausole; né si ritiene che l’adattamento interpretativo finora operato dalla giurisprudenza per attribuire tale significato ad una disposizione, che sembra avere un contenuto del tutto diverso, sia poggiato su basi sufficientemente solide, vista l’incidenza su primari diritti costituzionali.
Ci troviamo pertanto di fronte a questa alternativa ermeneutica: o la fonte degli obblighi dell’impresa rimane il contratto di appalto e, allora, la norma non aggiunge alcunché all’assetto normativo previgente; ovvero, se innovazione vi è stata, essa va nella direzione di depotenziare gli effetti del protocollo di legalità, limitandoli alla fase di svolgimento della gara senza incidere sulla quella esecutiva.
Sembra più plausibile la prima opzione descritta, a patto che venga anche vagliata la conformità delle clausole dei protocolli ai principi generali in materia di appalti pubblici, così come emerge dalla giurisprudenza più volte richiamata che individua i limiti alla potestà discrezionale della P.A. in materia.
Altro parametro da tenere in considerazione, a tal proposito, è la prassi dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, secondo cui “mediante l’accettazione delle clausole sancite nei protocolli di legalità al momento della presentazione della domanda di partecipazione e/o dell’offerta, infatti, l’impresa concorrente accetta, in realtà, regole che rafforzano comportamenti già doverosi per coloro che sono ammessi a partecipare alla gara e che prevedono, in caso di violazione di tali doveri, sanzioni di carattere patrimoniale, oltre alla conseguenza, comune a tutte le procedure concorsuali, della estromissione dalla gara..” .
L’Autorità, sia pure in un momento di poco antecedente all’ approvazione della legge 190/2012, nel definire, in conformità ad indicazioni giurisprudenziali, i limiti di compatibilità dei protocolli di legalità con il principio di tassatività delle cause di esclusione dalla gara ex art. 46 del Codice degli appalti, ha quindi implicitamente reputato che detti protocolli non sarebbero in grado di generare legittimamente obblighi, non precedentemente previsti nell’ordinamento, ma solo di rafforzare quelli già esistenti.
La norma contenuta nella legge anticorruzione, per le sue evidenti carenze, non sembra tale da poter scalfire significativamente l’assetto del settore in esame, conformato nei termini sopra descritti da giurisprudenza e prassi.

da www. diritto.it (http://www.diritto.it/docs/35761-i-protocolli-di-legalita-orientamenti-giurisprudenziali-e-problematiche-interpretative)

Rispondi

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.